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La Bella addormentata nel bosco C.Perrault – I racconti di mamma oca - 1697 Vi
voglio raccontare questa favola, nella sua versione originale, perché è
straordinariamente bella, divertente e ricca di insegnamenti e di notizie sulla
vita, sulle consuetudini, ma anche sul cibo e sui cuochi.... C'era una volta un Re e una Regina che erano disperati di non aver figliuoli, ma tanto disperati, da non potersi dir quanto. Andavano tutti gli anni ai bagni, ora qui ora là: voti, pellegrinaggi; vollero provarle tutte: ma nulla giovava. Alla fine la Regina rimase incinta, e partorì una bambina. Fu fatto un battesimo di
gala; si diedero per comari alla Principessina tutte le fate che si poterono
trovare nel paese (ce n'erano sette) perché ciascuna di esse le facesse un
regalo; e così toccarono alla Principessa tutte le perfezioni immaginabili di
questo mondo. Dopo la cerimonia del
battesimo, il corteo tornò al palazzo reale, dove si dava una gran festa in
onore delle fate. Davanti a ciascuna di esse fu messa una magnifica posata, in un astuccio d'oro massiccio, dove c'era dentro un cucchiaio, una forchetta e un coltello d'oro finissimo, tutti guarniti di diamanti e di rubini. date
un'occhiata a BON TON E POSATE:
PILLOLE DI STORIA per
meglio capire l'importanza di questo particolare dono
Ma
in quel mentre stavano per prendere il loro posto a tavola, si vide entrare una
vecchia fata, la quale non era stata invitata con le altre, perché da
cinquant'anni non usciva più dalla sua torre e tutti la credevano morta. Il Re le fece dare una
posata, ma non ci fu modo di farle dare, come alle altre, una posata d'oro
massiccio, perché di queste ne erano state ordinate solamente sette, per le
sette fate. La vecchia prese la cosa per uno sgarbo, e brontolò fra i denti
alcune parole di minaccia. Una delle giovani fate, che era accanto a lei, la
sentì, e per paura che volesse fare qualche brutto regalo alla Principessina,
appena alzati da tavola, andò a nascondersi dietro un paravento, per potere in
questo modo esser l'ultima a parlare, e rimediare, in quanto fosse stato
possibile, al male che la vecchia avesse fatto. Intanto le fate cominciarono a distribuire alla Principessa i
loro doni. La più giovane di tutte le diede in regalo che ella sarebbe stata la
più bella donna del mondo: un'altra, che ella avrebbe avuto moltissimo spirito:
la terza, che avrebbe messo una grazia incantevole in tutte le cose che avesse
fatto: la quinta che avrebbe cantato come un usignolo: e la sesta, che avrebbe
suonato tutti gli strumenti con una perfezione da strasecolare. Essendo venuto il momento della vecchia fata, essa disse
tentennando il capo più per la bizza che per ragion degli anni, che la
Principessa si sarebbe bucata la mano con un fuso e che ne sarebbe morta! Questo
orribile regalo fece venire i brividi a tutte le persone della corte, e non ci
fu uno solo che non piangesse. A questo punto, la giovane fata uscì di dietro il paravento e disse forte queste parole: "Rassicuratevi, o Re e Regina; la vostra figlia non morirà: è vero che io non ho abbastanza potere per disfare tutto l'incantesimo che ha fatto la mia sorella maggiore: la Principessa si bucherà la mano con un fuso, ma invece di morire, s'addormenterà soltanto in un profondo sonno, che durerà cento anni, in capo ai quali il figlio di un Re la verrà a svegliare". Il Re, con l’intenzione di evitare la sciagura annunziatagli dalla vecchia, fece subito bandire un editto, col quale era proibito a tutti di filare col fuso e di tenere fusi per casa, pena la vita. Fatto sta, che passati quindici o sedici anni, il Re e la Regina
essendo andati a una loro villa, accadde che la Principessina, correndo un
giorno per il castello e girovagando da un quartiere all'altro, salì fino in
cima a una torre, dove in una piccola soffitta c'era una vecchina, che se ne
stava sola sola, filando la sua rocca. Questa buona donna non sapeva nulla della
proibizione fatta dal Re di filare col fuso. "Che fate voi, buona
donna?", disse la Principessa. "Son qui che filo, mia bella
ragazza", le rispose la vecchia, che non la conosceva per niente. "Oh!
carino, carino tanto!", disse la Principessa, "ma come fate? datemi un
po' qua, che voglio vedere se riesce anche a me." Vivacissima e anche un
tantino avventata com'era (e d'altra parte il decreto della fata voleva così),
non aveva ancora finito di prendere in mano il fuso, che si bucò la mano e
cadde svenuta. La buona vecchia, non sapendo che cosa si fare, si mette a
gridare aiuto. Corre gente da tutte le parti; spruzzano dell'acqua sul viso alla
Principessa: le sganciano i vestiti, le battono sulle mani, le stropicciano le
tempie con acqua della Regina d'Ungheria; ma non c'è verso di farla tornare in
sé. Allora il Re, che era accorso al rumore, si ricordò della predizione delle
fate: e sapendo bene che questa cosa doveva accadere, perché le fate l'avevano
detto, fece mettere la Principessa nel più bell'appartamento del palazzo, sopra
un letto tutto ricami d'oro e d'argento. Si sarebbe detta un angelo, tanto era
bella: perché lo svenimento non aveva tolto nulla alla bella tinta rosa del suo
colorito: le gote erano di un bel incarnato, e le labbra come il corallo. Ella
aveva soltanto gli occhi chiusi: ma si sentiva respirare dolcemente; e così dava a vedere che non era morta. Il Re ordinò che la
lasciassero dormire in pace finché non fosse arrivata la sua ora di destarsi. La buona fata, che le aveva salvata la vita, condannandola a dormire per
cento anni, si trovava nel regno di Matacchino, distante di là dodici mila
chilometri, quando capitò alla Principessa questa disgrazia: ma ne fu avvertita
in un baleno da un piccolo nano che portava ai piedi degli stivali di sette
chilometri (erano stivali, coi quali si facevano sette chilometri per ogni
passo). La fata partì subito, e in meno di un'ora fu vista arrivare dentro un
carro di fuoco, tirato dai draghi. Il Re andò ad offrirle la mano, per farla
scendere dal carro. Ella diede un'occhiata a quanto era stato fatto: e poiché era molto
prudente, pensò che quando la Principessa si fosse svegliata, si sarebbe
trovata in un brutto impiccio, a trovarsi sola sola in quel vecchio castello; ed
ecco quello che fece. Toccò colla sua bacchetta tutto ciò che era nel castello (meno il Re e la
Regina) governanti, damigelle d'onore, cameriste, gentiluomini, ufficiali,
maggiordomi, cuochi, sguatteri, lacchè, guardie, svizzeri, paggi e servitori; e
così toccò ugualmente tutti i cavalli, che erano nella scuderia coi loro
palafrenieri e i grossi mastini di guardia nei cortili e la piccola Puffe, la
cagnolina della Principessa, che era accanto a lei, sul suo letto. Appena li
ebbe toccati, si addormentarono tutti, per risvegliarsi soltanto
quando si sarebbe risvegliata la loro padrona, onde trovarsi pronti a servirla
in tutto e per tutto. Gli stessi spiedi, che giravano sul fuoco, pieni di
pernici e di fagiani si addormentarono: e si addormentò anche il fuoco. E tutte queste cose furono fatte in un batter d'occhio; perché
le fate sono sveltissime nelle loro faccende. Allora il Re e la Regina, quand'ebbero baciata la loro figliuola, senza che si svegliasse, uscirono dal castello, e fecero emanare un decreto che ordinava che nessuno si fosse avvicinato a quei pressi.
E la proibizione non era nemmeno necessaria, perché in meno d'un
quarto d'ora crebbe, lì dintorno al parco, una quantità straordinaria di
alberi, di arbusti, di sterpi e di pruneti, così intrecciati fra loro, che non
c'era pericolo che uomo o animale potesse passarvi attraverso. Si vedevano
appena le punte delle torri del castello: ma bisognava guardarle da una gran
distanza. E anche qui è facile riconoscere che la fata aveva trovato un
rimedio del suo mestiere, affinché la Principessa, durante il sonno, non avesse
a temere l'indiscrezione dei curiosi. In capo a cent'anni, il
figlio del Re che regnava allora, e che era di un'altra famiglia che non aveva
che far nulla con quella della Principessa addormentata, andando a caccia in
quei dintorni, domandò che cosa fossero le torri che si vedevano spuntare al di
sopra di quella folta boscaglia. Ciascuno gli rispose,
secondo quello che ne avevano sentito dire: chi gli diceva che era un vecchio
castello abitato dagli spiriti; chi raccontava che tutti gli stregoni del
vicinato ci facevano il loro sabba. La voce più comune era quella che ci stesse
di casa un orco, il quale portava dentro tutti i ragazzi che poteva agguantare,
per poi mangiarseli a suo comodo, e senza pericolo che qualcuno lo rincorresse,
perché egli solo aveva la virtù di aprirsi una strada attraverso il bosco. Il Principe non sapeva a chi dar retta, quando un vecchio contadino prese la parola e gli disse: "Mio buon Principe, sarà ormai più di cinquant'anni che ho sentito raccontare da mio padre che in quel castello c'era una Principessa, la più bella che si potesse mai vedere; che essa doveva dormirvi cento anni, e che sarebbe destata dal figlio di un Re, al quale era destinata in sposa". A queste parole, il Principe s'infiammò; senza esitare un attimo, pensò che sarebbe stato lui, quello che avrebbe condotto a fine una sì bella avventura, e spinto dall'amore e dalla gloria, decise di mettersi subito alla prova. Appena si mosse verso il bosco, ecco che subito tutti gli alberi d'alto fusto e i pruneti e i roveti si tirarono da parte, da se stessi, per lasciarlo passare. Egli s'incamminò verso il castello, che era in fondo a un viale, ed entrò dentro; e la cosa che gli fece un po' di stupore, fu quella di vedere che nessuno dei suoi uomini aveva potuto seguirlo, perché gli alberi, appena passato lui, erano tornati a ravvicinarsi.
Ma non per questo si
peritò a tirare avanti per la sua strada: un Principe giovine e innamorato è
sempre pieno di valore. Entrò in un gran
cortile, dove lo spettacolo che gli apparve dinanzi agli occhi sarebbe bastato a
farlo gelare di spavento. C'era un silenzio, che metteva paura: dappertutto
l'immagine della morte: non si vedevano altro che corpi distesi per terra, di
uomini e di animali, che parevano morti, se non che dal naso bitorzoluto e dalle
gote vermiglie dei guardaportoni, egli si poté accorgere che erano soltanto
addormentati, e i loro bicchieri, dove c'erano sempre gli ultimi sgoccioli di
vino, mostravano chiaro che si erano addormentati trincando. Passa quindi in un altro
gran cortile, tutto lastricato di marmo; sale la scala ed entra nella sala delle
guardie, che erano tutte schierate in fila colla carabina in braccio, e
russavano come tanti ghiri; traversa molte altre stanze piene di cavalieri e di
dame, tutti addormentati, chi in piedi chi a sedere. Entra finalmente in una
camera tutta dorata, e vede sopra un letto, che aveva le cortine tirate su dai
quattro lati, il più bello spettacolo che avesse visto mai, una Principessa che
mostrava dai quindici ai sedici anni, e nel cui aspetto sfolgorante c'era
qualche cosa di luminoso e di divino. Si accostò tremando e ammirando, e si
pose in ginocchio accanto a lei. A quel punto, siccome la fine dell'incantesimo era arrivata, la Principessa si svegliò, e guardandolo con certi occhi, più teneri assai di quello che sarebbe lecito in un primo abboccamento, "Siete voi, o mio Principe?", ella gli disse. "Vi siete fatto molto aspettare!" Il Principe, incantato da queste parole, e più ancora dal modo col quale erano dette, non sapeva come fare a esprimerle la sua ammirazione e la sua gratitudine. Giurò che l'amava più di se stesso. I suoi discorsi furono sconnessi e per questo piacquero di più; perché, poca eloquenza, grande amore! Esso era più imbrogliato di lei, né c'è da farsene meraviglia, a motivo che la Principessa aveva avuto tutto il tempo per poter pensare alle cose che avrebbe avuto da dirgli: perché, a quanto pare (la storia peraltro non ne fa parola), durante un sonno così lungo, la sua buona fata le aveva regalato dei piacevolissimi sogni. Fatto sta, che erano già quattro ore che parlavano fra loro due, fitto fitto, e non si erano ancora detta la metà delle cose che avevano da dirsi.
Intanto tutte le persone
del palazzo si erano svegliate colla Principessa: e ciascuno aveva ripreso le
sue faccende: e siccome tutti non erano innamorati, così non si reggevano in
piedi dalla fame. La dama d'onore, che
sentiva sfinirsi come gli altri, perdé la pazienza e disse ad alta voce alla
Principessa che la zuppa era in tavola. Il Principe diede mano alla Principessa
perché si alzasse: ella era già abbigliata e con gran magnificenza: ed egli fu
abbastanza prudente da farle osservare, che era vestita come la mi' nonna, e che
aveva un camicino alto fin sotto gli orecchi, come si usava un secolo addietro.
Ma non per questo era meno bella. Passarono nel gran
salone degli specchi e lì cenarono, serviti a tavola dagli ufficiali della
Principessa. Gli oboe e i violini suonarono delle sinfonie vecchissime, ma
sempre belle, quantunque fosse quasi cent'anni che nessuno pensava più a
suonarle: e dopo cena, senza metter tempo in mezzo, il grande elemosiniere li
maritò nella cappella di corte, e la dama d'onore tirò le cortine del parato. Dormirono poco. La
Principessa non ne aveva un gran bisogno, e il Principe, appena fece giorno, la
lasciò per ritornare in città, dove il padre suo stava in pensiero per lui. Il
Principe gli dette a intendere che, nell'andare a caccia, s'era sperso in una
foresta e che aveva dormito nella capanna d'un carbonaio, dove aveva mangiato
del pan nero e un po' di formaggio. Quel buon uomo di suo padre, che era proprio
un buon uomo, ci credé: ma non fu così di sua madre, la quale, vedendo che il
figliuolo andava quasi tutti i giorni a caccia e che aveva sempre degli
ammennicoli pronti per giustificarsi, tutte le volte che gli accadeva di passare
tre o quattro nottate fuori di casa, finì col mettersi in capo che ci doveva
essere di mezzo qualche amoretto. Perché bisogna sapere che egli passò più di
due anni insieme colla Principessa, e ne ebbe due figli; di cui il maggiore, che
era una femmina, si chiamava Aurora, e il secondo che era maschio, fu chiamato
Giorno, comecché promettesse di essere anche più bello della sorella. La Regina si provò più
volte a interrogare il figlio, e a metterlo su per levargli di sotto qualche
parola: dicendogli che in questo mondo ognuno è padrone di fare il piacer suo:
ma egli non si arrisichiò mai a confidarle il segreto del suo cuore. Voleva bene a sua madre; ma ne aveva paura, perché essa veniva da una famiglia d'orchi, e il Re s'era indotto a sposarla unicamente a cagione delle sue grandi ricchezze. Anzi c'era in corte la diceria che ella avesse tutti gli istinti dell'orco; e che, quando vedeva passare dei ragazzetti, facesse sopra di sé degli sforzi inauditi per trattenersi dalla voglia di avventarsi su di essi e di mangiarseli vivi. Ecco perché il Principe
non volle mai dir nulla dei suoi segreti. Ma quando il Re morì, e questo
accadde due anni dopo, e che egli diventò il padrone del regno, fece subito
bandire pubblicamente il suo matrimonio e andò con grande scialo a prendere la
Regina sua moglie al castello. Le fu preparato un solenne ingresso nella
capitale del Regno, dov'ella entrò in mezzo ai suoi due figli. Di lì a poco
tempo il Re andò a far la guerra al Re Cantalabutta, suo vicino. Lasciò la
reggenza del Regno alla Regina sua madre, e le raccomandò tanto e poi tanto la
moglie e i figliuoli suoi. Si contava che egli dovesse restare alla guerra tutta
l'estate, che appena fu partito la Regina mandò la nuora e i suoi ragazzi in
una casa in mezzo ai boschi, per poter meglio soddisfare le sue orribili voglie.
Dopo qualche giorno, vi andò essa pure, e una tal sera disse al suo capo cuoco: "Domani a pranzo voglio mangiare la piccola Aurora". "Ah, signora!", esclamò il cuoco. "Voglio così", rispose la Regina; e lo disse col tono di voce d'un'orchessa, che ha proprio voglia di mangiare della carne viva. "E la voglio mangiare in salsa piccante." Quel pover'uomo del cuoco, vedendo che con un'orchessa c'era poco da scherzare, prese una grossa coltella e salì su nella camera della piccola Aurora. Ella aveva allora quattr'anni appena, e corse saltellando e ridendo a gettarglisi al collo e a chiedergli delle chicche. Egli si mise a piangere, la coltella gli cascò di mano e andò giù nella corte a sgozzare un agnellino, e lo cucinò con una salsa così buona, che la sua padrona ebbe a dire di non aver mai mangiato una cosa così squisita in tempo di vita sua. si sa che ben condito.... In quello stesso tempo
esso aveva portato via la piccola Aurora e l'aveva data in custodia alla sua
moglie, perché la nascondesse nel quartierino di sua abitazione in fondo al
cortile. Otto giorno dopo quella strega della Regina disse al suo capo cuoco:
"Voglio mangiare a cena il piccolo Giorno". Egli non rispose né sì né no, risoluto com'era a farle lo stesso tiro
della volta passata. Andò a cercare il piccolo Giorno, e lo trovò con una
spada in mano, che tirava di scherma con una grossa scimmia: eppure non aveva più
di tre anni. Lo prese e lo portò alla sua moglie, la quale lo nascose insieme
colla piccola Aurora: e in luogo del fanciullo, servì in tavola un capretto di
latte, che l'orchessa trovò delizioso. Fin lì le cose erano andate bene; ma una sera la malvagia Regina disse al
cuoco: "Voglio mangiare la Regina, cucinata colla stessa salsa de' suoi
figliuoli". Fu allora che il povero cuoco sentì che gli cadevano le
braccia, perché non sapeva proprio come fare a ingannarla per la terza volta.
La giovane Regina aveva vent'anni suonati, senza contare i cento passati
dormendo; e la sua pelle, quantunque sempre bella e bianchissima, era diventata
un po' tosta: e ora come trovare nello stallino un animale che avesse per
l'appunto la pelle tigliosa a quel modo? Per salvare la propria vita, prese la
risoluzione di tagliar la gola alla Regina e salì nella camera di lei, col
fermo proposito di non doverci provare due volte. Egli fece di tutto per eccitarsi e per andare in bestia, e con un pugnale in
mano entrò nella camera della giovane Regina: ma non volendola prendere di
sorpresa, le raccontò con grandissimo rispetto l'ordine ricevuto dalla Regina
madre. "Fate pure, fate pure", ella gli disse, porgendogli il collo,
"eseguite l'ordine che vi hanno dato; io andrò così a rivedere i miei
figli, i miei poveri figli, che ho tanto amato." Ella li credeva morti fin
dal momento che li aveva veduti sparire, senza saperne altro. "No, no, o signora", rispose il povero cuoco, tutto intenerito,
"voi non morirete nient'affatto: e non lascerete per questo di andare a
rivedere i vostri figliuoli: ma li vedrete a casa mia, dov'io li ho nascosti, e
anche per questa volta ingannerò la Regina, facendole mangiare una giovine
cerva invece di voi." La condusse subito nella sua camera, dove, lasciandola che si sfogasse a baciare le sue creature, e a piangere con esse, se ne andò di corsa a cucinare una cerva, che la Regina mangiò per cena, col medesimo gusto, come se avesse mangiato la giovine Regina.
Ella era molto soddisfatta della sua crudeltà; e già studiava il modo per
dare a intendere al Re, quando fosse tornato, che i lupi affamati avevano
divorato la Regina sua moglie e i suoi ragazzi. Una sera che la Regina madre, secondo il suo solito, ronzava in punta di
piedi per le corti e per i cortili, a fiutare l'odore della carne cruda, sentì
in una stanza al pian terreno il piccolo Giorno che piangeva, perché la sua
mamma lo voleva picchiare, perché era stato cattivo, e sentì nello stesso
tempo la piccola Aurora che implorava perdono per il suo fratellino. L'orchessa
riconobbe la voce della Regina e de' suoi figliuoli, e furibonda d'essere stata
ingannata, con una voce spaventevole, che fece tremar tutti, ordinò che la
mattina dipoi fosse portata in mezzo alla corte una gran vasca, e che la vasca
fosse riempita di vipere, di rospi, di ramarri e di serpenti per farvi gettar
dentro la Regina, i figliuoli, il capo cuoco, la moglie di lui e la sua serva di
casa. Ella aveva ordinato che
fossero menati tutti colle mani legate di dietro. Essi erano lì, e già i
carnefici si preparavano a gettarli nella vasca, quand'ecco che il Re, il quale
non era aspettato così presto di ritorno, entrò nella corte a cavallo: esso
era venuto colla posta, e domandò tutto stupito che cosa mai volesse dire
quell'orrendo spettacolo. Nessuno aveva coraggio di aprir bocca, quando
l'orchessa, presa da una rabbia indicibile nel vedere quel che vedeva, si gettò
da se stessa colla testa avanti nella vasca, dove in un attimo fu divorata da
tutte quelle bestiacce, che c'erano state messe dentro per suo comando. A ogni modo il Re se ne mostrò addolorato, perché in fin dei conti era sua madre: ma trovò la maniera di consolarsene presto colla sua bella moglie e coi suoi bambini. Le suocere....
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